Inferno e paradiso


Un boato irruppe nell’aria, impregnandola per un attimo di ioni, e una carica elettrostatica si diffuse rapidamente, scemando in pochi istanti.
Dan sbuffò e sollevò il bavero del soprabito di pelle, che la faceva sembrare un’ombra in quel che restava della via principale della città. I capelli corvini le sfioravano le spalle, ricadendo davanti il viso, coprendolo per una buona metà, lasciando in mostra solo il lato destro. La pelle chiara creava un contrasto evidente nella figura che avanzava con passo sicuro e senza alcuna fretta, incurante di calpestare i resti della distruzione ancora sparsi in giro, con una leggerezza che la rendeva silenziosa come un gatto. Sembrava non accorgersi neppure dei calcinacci e i rottami metallici, con lo sguardo freddo e tagliente puntato dritto avanti a sé, il cui colore richiamava il cielo nelle sue giornate migliori: un grigio glaciale. Non era quello il caso, dato che sopra la sua testa svettava un empireo plumbeo, con pesanti nubi nere, tra le quali si insinuavano bagliori rosso arancio. Le facciate dei palazzi, ormai private persino della memoria della bellezza che, forse, un tempo le aveva caratterizzate, sfilavano accanto a lei come guardiani agonizzanti: alcuni sembravano voler combattere una strenua resistenza, altri si erano accartocciati su stessi, piegati, spezzati, qualcuno le ricordava vecchi lebbrosi segnati dalla malattia, che perdevano pezzi di sé e a questi bisognava stare attenti, non per il rischio di contagio, bensì per non ritrovarsi col cranio spappolato come un cocomero. 
“Un cocomero, chissà che sapore doveva avere, dalle foto sembrava buono, sicuramente succoso” sospirò.
Con uno scatto svoltò in un vicolo di cui a malapena si poteva intravedere l’imbocco, inoltrandosi un labirinto di viuzze, più simili a cunicoli bui e maleodoranti. Gli anfibi producevano un suono fastidioso, sguazzando in una fanghiglia, la cui origine era meglio non indagare, rallentando il suo incedere per evitare di schizzarsi e infradiciarsi fino alle ginocchia. Dieci minuti più tardi, si calò direttamente nelle fogne, passando da un piccolo tombino.
«Che merda.» mugugnò, atterrando in piedi come un felino dal salto di due metri abbondanti, solo flettendo leggermente le ginocchia.
Il buio era totale, l’aria pesante le penetrava nelle narici e nel cervello come piccoli aghi fetidi. Ciononostante, non aveva alcun problema a muoversi lì sotto. Bisognava osservarla con attenzione per notare l’unico occhio in vista, con la pupilla dilatata che copriva quasi per intero l’iride, restituendo un effetto specchiato, profilato da una lieve luminescenza argentea.
«Ti si potrebbe gettare in un abisso, ma tu torneresti sempre e comunque a casa, vero?»
Una voce maschile riecheggiò, bassa e roca, rimbalzando tra le pareti di metallo e cemento.
«Fottiti.» rispose lei dopo un istante, inclinando il capo di lato, fissando una direzione precisa.
«La mia piccola Danielle, tanto romantica quanto bella.»
«Credo che il romanticismo si sia estinto qualche secolo fa, non è colpa mia se non so cosa sia.» fece spallucce sollevando le mani coi palmi rivolti verso l’alto.
«Allora facciamo, tanto bella quanto innocente?»
La risata della donna riempì la fogna, irrompendovi come un fiume in piena, altrettanto sporca e melmosa.
«Innocenza: termine non pervenuto, mi spiace.» concluse con tono tagliente.
Riprese a camminare lungo lo stretto marciapiede, stavolta in modo sostenuto.
«Gettarmi in un abisso è una strana metafora per dire “ti ho narcotizzata e abbandonata in un luogo sperduto, con quattro catapecchie in mezzo al nulla a qualche distretto di distanza”!» replicò a denti stretti.
«In effetti non era un abisso, ma un posto pulito.»
«Ti ho già detto di andare a farti fottere?»
«Mi pare di sì.»
La risposta arrivò assieme a un peso che le si schiantò sul fianco sinistro, inchiodandola alla parete. L’urto le tolse il fiato, costringendola a svuotare i polmoni, pur trattenendo un verso strozzato in gola.
«Si può sapere perché diavolo sei tornata, Danielle?»
«Dan.» sibilò in faccia al suo interlocutore come un cobra.
«Dan è morta nell’ultima missione a cui ha preso parte, durante il rientro è stata colpita da una granata al plasma e di lei non è rimasto che il ricordo.»
«Che bella fine che mi hai fatto fare, grazie!»
«Martire per la causa, cosa vuoi di più?»
La voce dell’uomo si fece più cupa, venata da una certa contrarietà. Tuttavia, uno scatto accompagnò la domanda, facendole sentire il vuoto dietro di sé. Spinta indietro, Dan perse l’equilibrio e in una frazione di secondo la sua mente ponderò di aggrapparsi a lui, per scartarla subito dopo con decisione: meglio finire per terra. L’uomo non parve essere dello stesso avviso e l’afferrò per la vita, stringendola a sé, continuando a camminare. Un altro scatto segnò la chiusura dell’ingresso al rifugio, dove l’aria le restituì freschezza e profumo di pulito, tanto da dover chiudere un istante gli occhi, smettendo di ribellarsi.
Poter respirare senza provare dolore era qualcosa a cui anelava da settimane.
Si ritrovò di nuovo spalle al muro e una fioca luce calda illuminò l’ampia stanza, che ben conosceva, ma il suo sguardo fu catturato da quello ambrato di lui. Era diverso guardarlo al buio e poterlo osservare alla luce, lo realizzò solo in quel momento e rimpianse l’oscurità. Il viso dai tratti duri, marcati, quelli di un guerriero e di un animale allo stesso tempo, l’incarnato olivastro e i capelli di che scendevano lungo le spalle, selvaggi, poi giù lungo la schiena, bianchi come la neve che non aveva mai visto davvero.
«Perché sei tornata?» le domandò ancora.
«Se devo crepare preferisco farlo a casa mia.» gli disse con determinazione, quella che solo lei riusciva a mantenere davanti a lui, anche nei suoi momenti peggiori di rabbia, quando non riuscivano a raggiungere un obiettivo e tutti si dileguavano per lasciarlo sfogare in pace.
Lei si trovava un posto per sedersi e restava a guardarlo distruggere tutto quello che gli capitava a tiro, tutto tranne lei. La prima volta che accadde, si fermò a fissarla inebetito, giacché non si era accorto che era rimasta lì e si era ritrovato a fronteggiare il suo sorrisetto divertito. Dan era l’ultima arrivata, aveva vent’anni e nessuno l’aveva presa molto sul serio, se non dopo aver saggiato sul campo le sue doti naturali. Dopo un attimo di smarrimento, le aveva urlato contro di levarsi dai piedi, in risposta, lei aveva accavallato le gambe e si era messa comoda, invitandolo a proseguire: era il miglior spettacolo a cui aveva assistito nella sua vita, gli disse. La rabbia di Kyle si dissolse all’istante e si abbandonò sul divano di fianco a lei.
«Davvero non lo capisci?» le chiese sfiorandole il collo col naso, inspirando il suo odore.
«Cosa dovrei capire? Cazzo, ero scampata per un soffio a una granata, sono tornata qui con te euforica, abbiamo fatto l’amore e poi mi sono svegliata in un letto che non era il tuo. Le persone normali si lasciano quando sono stufe, mica le si spedisce in culo al mondo come hai fatto tu! Per di più ora scopro che sono pure morta quel giorno!»
Le cinse il collo con la mano, una leggera pressione per invitarla a tacere, e il pollice iniziò a carezzarle il profilo, con gli occhi fissi sulle sue labbra rosee.
«Appunto, per un pelo non sei morta e mi sono reso conto che avrei potuto vederti morire in qualsiasi momento. Saresti morta davanti ai miei occhi come tanti altri, solo che tu non sei come tutti gli altri, non per me. C’è una guerra e contano su di me, ma se accadesse, io…» esitò e i loro sguardi si incrociarono «Io non resisterei, non ce la farei.»
«Sei un fottuto egoista, ecco cosai, un caprone egoista!» gli ringhiò contro.
Era arrabbiata, tuttavia gli occhi la tradivano, troppo lucidi, nonostante la voce sostenuta.
«Da quando sarei un caprone? Egoista, sì, hai ragione. Preferisco saperti viva in un posto migliore.»
«Da quando mi sono svegliata in quel letto e ringrazia la tua buona stella, se non ho fatto a pezzi quei due poveri disgraziati a cui mi hai rifilato come un pacco!»
«Non lo avresti mai fatto.» ridacchiò Kyle.
«Non ci giurare, ti assicuro che ho pensato di massacrare chiunque incontrassi lungo la strada per tornare qui.»
Non stava scherzando e lui se ne rese conto, era seria e c’era di più in quel suo modo di fare, nel suo sguardo: non l’aveva solo delusa, era come se avesse spezzato qualcosa dentro di lei.
«Danielle, tu sei come me, noi riusciamo a fare molto più dei normali esseri umani, ma ne paghiamo un prezzo assai caro, che loro non possono capire. Agonizziamo in queste fogne, in questa maledetta città a ogni respiro. Se saltasse il sistema di filtraggio, e prima o poi succederà, non ci sarebbe più un solo posto dove trovare un momento di pace. Là avresti potuto stare bene.» le disse poggiando la fronte alla sua.
La sua voce trasudava emozioni estreme, contrastanti, sincere in una strisciante verità, che le parvero una lirica anelata e, al contempo, insperata.
«Loro non possono, noi due sì. Almeno qui eravamo insieme, era una realtà che potevamo condividere. Come hai potuto pensare che avrei preferito la solitudine a cui mi avevi voluto condannare? Anzi, a cui hai voluto condannare entrambi.»
«Ti amo, mi condannerei a tutto.»
Le loro labbra erano tanto vicine da sfiorarsi e le certezze, la voglia di vendicarsi, di urlargli contro e lasciargli addosso qualche nuova cicatrice si stavano sgretolando nel confondersi dei loro respiri, caldi e profondi.
«Allora condannati ad avermi vicino.»
«Non posso…» le sussurrò.
«Non me ne andrò, potrai spedirmi in capo al mondo e continuerò a tornare a casa mia, potrai tenermi lontana da te, dal tuo letto se vuoi, ma resterò in questo inferno fino alla fine.»
Una scintilla balenò feroce negli occhi di Kyle, mentre inclinò la testa.
«Resteresti qui infilandoti nel letto di un altro, facendo le fusa a chi ti capita solo per farmi dispetto?»
«No,» sogghignò lei «per farti infuriare. Se vedermi morire ti farebbe mollare, guardarmi mentre mi struscio su un altro ti farà impazzire del tutto.»
«Piccola stronza che non sei altro.»
«Mi sa che non hai ancora idea di dove posso arrivare.»
«Ti metteresti comoda a goderti lo spettacolo, come al tuo solito.»
«Solo che alla fine non farei l’amore con te, ma con l’altro.» sottolineò sprezzante, mimando un morso alla sua bocca, che non trovò realizzazione.
Un ringhio sommesso fu la prima risposta, mentre sulla fronte di lui si scavavano solchi profondi che scendevano tra gli occhi.
«Non tirare troppo la corda.»
«Quella che tu hai tranciato di netto?» ribatté Dan socchiudendo le palpebre, rimarcando di non essersi scordata cosa aveva fatto.
Kyle smise di accarezzarla e la mano le sfilò dietro il collo, insinuandosi tra i suoi capelli, mostrandole le zanne in un ghigno ambiguo.
«Va bene, hai vinto gattina, ti metterò un guinzaglio nuovo di zecca, ma se ti azzardi a crepare, vengo a riprenderti ovunque tu sia per fartela pagare.»
«Guinzaglio?» disse inarcando un sopracciglio.
Fece appena in tempo a finire la parola, che si ritrovò trascinata in uno dei suoi baci intrisi di passione e irruenza, capaci di esprimere a pieno il desiderio animale e selvaggio del compagno.
«Fai attenzione a come guardi un altro.» l’avvertì allontanandosi quanto bastava per lasciare scivolare via.
«Fai attenzione tu,» rispose avvicinandosi al letto sinuosa, muovendo le dita, sulle cui punte si rifletté la luce «devi comunque pagare il conto.»
Lo guardò di sottecchi e lo vide compiacersi della prospettiva rimirando gli artigli, in fondo erano abituati a combattere, non potevano farci nulla e sapevano assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Qualche graffio che poi gli avrebbe ricucito lei stessa, era un prezzo accettabile arrivati a quel punto.
Kyle piegò la testa prima a destra e poi sinistra, facendo schioccare le ossa, passando la lingua sulle labbra, come un lupo che già pregustava un lauto pasto.
«Allora cominciamo, così recuperiamo gli arretrati.» concluse raggiungendola, sfilandosi la maglia ed esibendo il complicato intreccio di cicatrici che costellavano il suo corpo.
Anche Danielle si leccò i baffi, seppur con un fare decisamente più sensuale.
“Già, recuperiamo gli arretrati… intanto, almeno un pezzetto di paradiso me lo merito” gli fece eco nella propria testa.

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