Amici

L’aroma intenso del caffè mi sveglia, accompagnato dal fastidioso ticchettio della sveglia: odio gli orologi analogici e il loro rumore. La mano scivola sulle lenzuola di raso, trovando solo il vuoto accanto a me. Un gesto stupido in effetti, ma del tutto automatico.
«Bella addormentata, pensi di alzarti?»
Sobbalzo al sopraggiungere di quella voce maschile, ironica e suadente al tempo stesso, scattando a sedere sul letto. Lascio scorrere lo sguardo nella stanza vuota e l’angoscia mi assale: i ricordi sono fantasmi spietati.
Un brivido mi scuote quando i piedi toccano il pavimento, freddo come il ghiaccio, o come la morte che flebile aleggia intorno a me. Mi trascino ciondolante in cucina chiedendomi perché continuo a indossare questa maledetta camicia cremisi ogni sabato, nemmeno potesse cambiare la realtà. Non è stata una buona idea comprare una macchinetta che prepara il caffè all’ora impostata, credevo mi avrebbe fatto sentire meglio, invece è solo una tortura, l’illusione di qualche istante, che si tramuta in una pugnalata diritta al cuore. Non era il suo sapore amaro a farmi iniziare bene le giornate, ma i baci bollenti che l’accompagnavano, quelli che non torneranno più.
Gelosia, una stupida e insensata gelosia aveva distrutto tutto con un colpo in pieno petto. Ricordo ancora la rosa scarlatta che sbocciò sulla camicia bianca e immacolata di David sotto il mio sguardo attonito, mentre Kevin continuava a blaterare cosa senza senso, almeno per me. Le sue parole mi arrivavano ovattate, c’erano solo gli occhi del mio compagno a fissarmi increduli: un attimo dilatato nel tempo, in cui lessi nel loro azzurro le sue scuse. Non avrebbe mantenuto la sua promessa e non mi avrebbe portato a cena quella sera.
Si accasciò a terra, il viso imperlato di sudore e io che lo stringevo disperatamente a me, cercando di non lasciarlo andare, pregando la morte di non portarmelo via.
Una fitta improvvisa seguita da un dolore acuto e intenso, poi il vuoto, il nulla.
Kevin aveva sparato anche a me nel suo delirio, eppure sono ancora qui… da sola.
Il nostro sangue si mescolò alle foglie autunnali del parco tre anni fa.
Kevin fu arrestato e condannato, io mi risvegliai in ospedale maledicendo i medici che mi avevano salvato: avrei dovuto morire anche io, avrei voluto morire quel giorno. 
«Sbrigati, il caffè si raffredda.»
«Basta!» grido ricominciando a piangere, per zittire una voce che non esiste.
Non faccio altro, ho perso il lavoro, ho smesso di uscire e di vedere gli amici, i nostri amici. Tutto mi ricorda lui e tutto mi ricorda che le persone possono trasformarsi in mostri, impazzire senza una ragione: non avevo mai assecondato Kevin, non gli avevo mai dato speranze, eppure non è bastato. La follia di un momento, la stessa che per mesi urlò nella mia testa in cerca di vendetta. Andai a trovarlo un anno più tardi e mi ritrovai davanti il solito collega sorridente, ma con gli occhi persi non so dove. Gli vomitai addosso il mio odio, la mia rabbia e lui si trasformò in un guscio vuoto e freddo, proprio come quel giorno.
«Lui non ti meritava, solo io posso amarti come meriti.»
Alle sue parole atone restai scioccata, guardandolo a bocca aperta. Non c’era in lui alcuna traccia di pentimento o rimorso, fatta eccezione per l’avermi sparato. Dovetti deglutire a forza per scacciare il nodo che mi attanagliava la gola e le lacrime che mi riempivano gli occhi.
«Non volevo colpire te, te lo giuro, ma volevo essere sicuro che lui morisse e non ti insudiciasse più con le sue mani e le sue parole.»
«Allora hai sbagliato tutto,» gli dissi piano «perché adesso David è sempre con me, non mi lascia mai, è sempre nella mia testa e lo vedo ovunque.»
Kevin si alzo di scatto iniziando a urlare, dovettero intervenire le guardie e sedarlo.
Ho avuto la mia vendetta, però non sto meglio e sono stanca.
«Non dire così, ti prego.»
Non era una bugia, David è sempre con me e non sono solo ricordi, mi parla, mi risponde; mi ha spinto ad andare avanti, ciononostante questa non è vita.
«Non ti puoi arrendere, io voglio che tu sia felice.»
«Anche io lo voglio.»
Butto giù il caffè d’un sorso e prendo un coltello dal cassetto, restando a osservarne la lama lucida, nel cui riflesso scorgo me e l’ombra del mio amore.
Non mi occorse molto per accorgermi di poterlo vedere nei riflessi, solo in quelli, sempre al mio fianco.
Vado in bagno e preparo la vasca, metto il bagnoschiuma alla rosa selvatica e lavanda: adorava sentirmi quel profumo sulla pelle. Il vapore caldo riempie la stanza e mi immergo nell'acqua rilassandomi, cercando ancora i momenti vissuti insieme. Affondo la lama nel polso, il bruciore diventa dolore, mentre risalgo il braccio.
Stavolta nessuno verrà a salvarmi, nessuno mi strapperà dalle braccia della morte. Chissà quando si accorgeranno della mia assenza, quando ritroveranno il mio corpo.
«Non è questo che volevo,»
«Lo so, nemmeno io avrei voluto perderti. Avrei solo voluto andare a cena per il nostro anniversario, darti il mio regalo.» mormoro sorridendo.
«Mi sarebbe piaciuta quella camicia, con quel colore vistoso che non fa per te, e mi sarebbe piaciuto togliertela per fare l’amore all’infinito.»
«Non ha più importanza.» sussurro.
Comincio a sentirmi debole, le palpebre si fanno pesanti e anche il dolore inizia a confondersi nell’acqua ormai rossa. Finalmente potrò dormire senza sognare, senza piangere… solo il buio.
«Ti amo.»
«Anch’io…»

A fatica riapro gli occhi, scoprendo un soffitto bianco e una luce fredda, quanto fastidiosa.
«Ben tornata.»
Sposto lo sguardo su un uomo seduto accanto a me: ha un viso familiare, ma non ho idea di chi sia.
«Dove sono?»
«In ospedale.»
Non è possibile, non posso essermela cavata di nuovo, non lo posso accettare! 
Lo fisso diffidente, nonostante l’espressione gentile e quei suoi occhi castani profondi. Ho la bocca secca, la gola brucia, tuttavia ho bisogno di capire.
«Cosa è successo, perché sono qui e non…»
«Morta?» interviene, finendo la frase per me «Colpa mia.»
«Chi diavolo sei?»
«L’inquilino del terzo piano, ci siamo incrociati qualche volta.» mi sorride «Se ti stai chiedendo come ho fatto, o perché l’ho fatto, ti anticipo che la risposta potrebbe sembrarti assurda. Diciamo che sono un amico.»
«Io non ho amici, per cui non potevi farti gli affari tuoi?» replico a denti stretti, cercando di muovermi, ritrovandomi col corpo intorpidito.
«Oh, ti assicuro che ci ho provato, eccome! Però David sa essere alquanto persuasivo.»
Resto impietrita dalle sue parole, dal sentirgli pronunciare quel nome con tanta naturalezza.
«Lui è morto…»
«Lo so bene, questo è il problema: non è facile sbattere fuori di casa un fantasma, soprattutto quando è tenace come lui.»
Torno a squadrarlo incredula.
«Di solito cerco di ignorarli e loro se ne vanno, ma David no. In effetti non mi cercava per farmi fare qualcosa, solo per parlare, era come se avesse bisogno di un amico ed è un po’ assurdo per uno che è morto. Mi sono prestato alla cosa e l’ho ascoltato, alla fine mi sa che siamo diventati amici sul serio.»
«Smettila di prendermi per il culo!» sbotto, infastidita dal suo modo di fare, da quello sguardo velato di malinconia che ha assunto terminando la frase.
«Non ti sto prendendo in giro.» replica in modo deciso con un tono greve «Lui era rimasto qui per te, aveva paura che da sola non ce l’avresti fatta a superare la sua perdita, diceva che hai la testa dura e non ti affezioni facilmente alle persone, però quando accade, lo fai in modo totale, senza mezze misure. Solo che pian piano si è reso conto che l’averlo vicino ti stava allontanando da tutto il resto.»
Sfuggo lo sguardo dello sconosciuto, che a quanto pare non sta vaneggiando, giacché era proprio così che David mi descriveva.
«Sei mesi fa mi ha chiesto di venirti a trovare, di parlarti, ma mi sono rifiutato. Non erano affari miei, non ci conoscevamo nemmeno, e io non sono il personaggio di una stupida serie TV, non vado in giro a parlare coi parenti dei defunti. Sono già abbastanza strano di mio, figuriamoci se mi mettessi pure a fare queste scemenze.»
Scoppia a ridere, eppure nel suo tono ha fatto capolino un’emozione differente, una punta di paura mescolata alla rassegnazione.
«Ogni tanto me lo tornava a chiedere, dicendo che tu hai sempre avuto un dono tutto tuo: capire le persone e le loro fragilità; di solito questo ti permetteva di aiutarle, sapevi come affrontare certi discorsi e quando farlo per non ferirli, ma avevi preso a usarlo proprio per restar sola. Facevi male a chi ti stava intorno, così da poterti nascondere da tutto restandotene a letto senza essere disturbata.»
«Già…»
«Aveva paura che ti arrendessi, perché non sei brava a restare da sola, neppure a fare il caffè.»
Stavolta sono io a sorridere: me lo diceva sempre, per questo lo preparava lui.
«Quando hai perso conoscenza è venuto a chiamarmi, mi ha implorato di aiutarti, di cercare di salvarti o non se lo sarebbe mai perdonato. Ti amava davvero molto, devi ritenerti fortunata, a me non è mai successo in trentacinque anni.»
«Perché lo hai assecondato?»
«Dopo quasi tre anni passati ad ascoltarlo parlare di te, temo di essermi affezionato anche io, almeno all’immagine che lui aveva di te e non potevo lasciare che tu morissi senza far nulla. Non me lo sarei perdonato nemmeno io.»
«Io volevo morire però, sono stanca, sono sola e lui mi manca troppo. Cosa dovrei fare adesso?»
«Non lo so, magari partiamo dal principio, come fanno le persone normali.» mi dice tendendo appena le labbra e allungando una mano verso di me «Piacere, io sono Chris, il pittore che disturba tutto il palazzo con i suoi orari assurdi.»
Adesso ho capito chi è, si lamentavano tutti di lui, tranne noi a cui non dava alcun fastidio, anzi, eravamo andati anche a un paio di sue mostre. David aveva accennato più volte al fatto che avremmo dovuto invitarlo a cena qualche volta, che doveva essere una persona interessante, ma non ne abbiamo avuto il tempo.
«Piacere, Emily.»
Gli stringo la mano e sento il suo calore, la sua stretta forte e sicura.
«Amici?» mi domanda.
«Amici, credo.»


Immagine di “Alexas_Fotos” da Pixabay

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